A cura di Cristian Vaga.
Questa volta mi sono voluto prendere almeno due giorni prima di scrivere queste righe. Avevo ancora sulla tastiera le parole che avevo battuto per ricordare Matheus Barbosa, il rider della Superbike 600 brasiliana scomparso troppo presto e troppo insensatamente lo scorso anno a Interlagos, durante un weekend di gara.
E se anche si parla di mondi agli antipodi, distanti nella geografia ma non nell’importanza, quanto successo sabato al Mugello rimane insensato e ci ha portato via un giovane, un rider, uno di noi. Non si vedeva dal 2016 la parola “decesso” sul palcoscenico del Motomondiale, da quel weekend che si è portato via Luis Salom: e ingenuamente speravamo e dicevamo che non sarebbe ricapitato, che anche se il pericolo è intrinseco di questo sport c’è una mano, una mano che sposta il rider all’ultimo momento e gli impedisce una fine immeritata e dolorosa per tutti.
Abbiamo in mente le immagini del GP di Austria dello scorso anno, con le moto di Franco e Johann che volano in mezzo a curva 3 minacciando la strage. Lì per fortuna, perchè è stato grazie alla fortuna, non è successo niente se non un enorme spavento.
Sabato no, sabato la fortuna non era in pista. L’immediato silenzio attorno alle sue condizioni ci hanno fatto temere il peggio: ci siamo passati diverse volte fra questo silenzio negli ultimi venti anni, il silenzio attorno a Daijiro, a Marco, a Shoya, anche a Nicky per certi versi. Quella cortina di silenzio che ti fa capire immediatamente l’inevitabile.
Le immagini le abbiamo viste tutti, non sto a riportarle o a dirvi dinamica e cazzi vari: non sono qua a spulciare traiettorie e danni fisici, non mi va di farlo.
Non mi va di farlo per un ragazzo di 19 anni che ha perso la vita dove era di casa, in pista, fra le moto, nei box. Morire a diciannove anni inseguendo le staccate dei colli toscani del Mugello, con in tasca un giro ottimo ma che si può e puoi migliorare.
La prima reazione che ho avuto è stata il silenzio. Non sapevo processare la cosa, non sapevo come e cosa dire quello che avevo dentro me. Ero nel paddock del Motoestate a Cremona con il mio collega, Claudio Boscolo, e la prima cosa che ho fatto appena l’ho saputo è stata fermarmi e stare in silenzio. Non ci volevo credere, anche se in cuor mio lo sapevo già da sabato come sarebbe andata.
Stupidamente (e mi viene da sorridere ripensandoci), Jason l’ho conosciuto nei videogame, su MotoGP19: lo avevo trovato nella Rookies Cup, e mi faceva sorridere il cognome. Ritrovarlo in Moto3 l’anno dopo accanto a Baltus mi ha fatto pensare che poteva essere uno bravo, magari non eccelso o un campione assoluto ma che qualcosa lo avrebbe detto.
Dopo un 2020 sottotono era ripartito con il piede ben più che giusto, inanellando cinque risultati a punti di fila nelle prime cinque gare, due volte addirittura in top 10; e fino a quel maledetto istante all’Arrabbiata 2 stava andando molto bene anche nel Q2, con una undicesima posizione che poteva dargli ulteriore spinta nel mondiale.
Non credo riusciremo a convivere tranquillamente con l’idea che un diciannovenne se ne sia andato inseguendo il suo velocissimo sogno, e purtroppo non credo che servirà a molto cercare il colpevole con torce e forconi: dal momento in cui la moto si accende siamo tutti, ma tutti, consapevoli che questo rischio fa parte del mestiere.
Per rendere sicure le corse, che siano moto, prototipi formula, endurance o qualsiasi altra categoria, c’è solo un modo. Tenere i motori spenti nel box. Fine.
Jason, spero tu stia continuando quel giro al Mugello, ovunque tu sia ora.
Un abbraccio, Cristian.
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