A cura di Cristian Vaga.
La MotoGP esiste da circa settant’anni, con il primo campionato valido, sanzionato e corso datato 1949. Da allora sono cambiati moltissimi aspetti: si sono alternati regolamenti diversi, punteggi differenti, motori più o meno grandi; i circuiti e le nazioni sono entrate e uscite ogni anno fino a portarci oggi, nel 2021, a quota ventinove nazioni toccate dalla MotoGP in tutti questi anni.
Poi ci sono i protagonisti di ieri e di oggi, volti celebri che hanno vinto la massima categoria nelle varie annate: basti pensare a nomi come Agostini, Barry Sheene, Doohan, Schwantz, agli ancora attivi Marc Marquez e Valentino Rossi. Uomini e ragazzi che hanno portato alti i colori della propria bandiera, della propria nazione: paesi che hanno gioito una sola vittoria come l’oggi scomparsa Rhodesia con Gary Hocking nel ’61, o paesi ormai avvezzi alla coppa del mondo come Stati Uniti, Spagna e Italia.
Però, c’è un però.
Nell’albo d’oro ufficiale c’è una mancanza fortissima. Una mancanza che è forte come un colpo di gong in mezzo all’Adagio di Albinoni: ossia, il Giappone.
Il Giappone ha una storia motociclistica palese ed evidente: se guardate quali moto hanno corso o corrono all’interno della MotoGP capirete cosa intendo. Attualmente la nazione del Sol Levante porta letteralmente mezza griglia di MotoGP, con Yamaha, Suzuki e Honda ad occupare metà dell’attuale schieramento. Scendendo nelle classi minori c’è sempre un costruttore che viene da lì, come Honda in Moto3 e NTS in Moto2.
Se prendiamo poi l’albo d’oro dei campionati costruttori troviamo un enorme lasso di tempo dominato dai nipponici: il massimo titolo infatti è stato vinto da una marca giapponese dal 1974 al 2019, con la sola “nota stonata” nel 2007 in cui Ducati ha alzato per la prima volta la coppa.
Dal ’74 al 2019 -escluso il 2007- fanno 44 titoli costruttori intascati dal Giappone. Quarantaquattro. Se contate che la MotoGP esiste da 72 anni, vedete anche voi come questa nazione abbia sempre saputo sfornare ottime moto nel corso degli anni e dominare i due terzi quasi dei campionati 500 prima e MotoGP dopo.
Questa egemonia nel costruttori stona moltissimo con lo 0 che si legge alla voce “Riders Championships“: il rider qualificatosi più in alto nelle classifiche finora è stato Tohru Ukawa con il suo terzo posto finale nel 2002, a pari merito con Nobuatsu Aoki nel 1997; quelli subito dopo sono stati Norifumi Abe nel 1996 e Shinya Nakano nel 2001, entrambi al quinto posto finale.
Scorrendo le classifiche si vedono quasi sempre dei giapponesi in MotoGP, e considerate che esiste una miriade di campionati junior dove si possono trovare talenti provenienti da tutta l’Asia, su tutti la Idemitsu Asia Talent Cup, la quale porta regolarmente all’esordio in Moto3 diversi piloti dal Giappone e dal resto dell’Asia.
Quindi la domanda sorge spontanea: il Giappone ha una cultura motociclistica pazzesca e un sistema consolidato per scovare talenti. E su questo, non ci sono obiezioni.
Cosa manca a questa nazione per avere in mano quel dannato trofeo della massima classe? Per ora l’intera nazione ripone le proprie speranze in Takaaki Nakagami, il quale dopo molti anni ha riportato un giapponese in pole position (Aragon 2020).
Che sia lui, in futuro, la chiave per rompere questo digiuno ormai ultrasettantenne? Oppure bisognerà attendere l’arrivo in MotoGP di uno fra Nagashima, Ogura o Tatsu Suzuki? O ancora, da qualche parte in Giappone è già nato un Marc Marquez orientale di cui non ne sappiamo ancora nulla?
Solo il tempo, e le gare, sapranno dirci qualcosa sul futuro di questa nazione in MotoGP.