A cura di Claudio Boscolo.
23 ottobre, domenica mattina come tante altre, l’attesa per quel semaforo verde e il consueto “scatenate l’inferno” di Guido Meda, l’attesa di un sedicenne come tanti che ama visceralmente qualunque ruota sia sospinta da un motore e che si appresta a vedere la penultima gara di MotoGP. L’attesa porta con sé grandi aspettative: una gara combattuta, sorpassi e controsorpassi e la speranza che quel grande ragazzo, capelluto e “sgraziato” nei movimenti con la moto bianca e quel 58 rosso fuoco riuscisse a raggiungere il tanto agognato primo gradino del podio dopo il secondo posto in Australia la settimana prima. L’ora dello start si avvicina così come i rimproveri di sua madre, perché sì, quel sedicenne dovrebbe studiare. Finalmente il collegamento sulla griglia di partenza, le condizioni meteo strane, nuvoloni neri minacciosi che preannunciano ancor più spettacolo al netto di un titolo iridato già assegnato. Prima fila tutta Honda poi Edwards su Yamaha e finalmente il numero 58. Rossi solo nono reduce da un’annata deludente e disastrosa con la Ducati.
Giro di ricognizione per saggiare le condizioni dell’asfalto e poi tutti in linea. “Gas a martello e scatenate l’inferno”. Primo giro al cardiopalma, bagarre e purtroppo quella Honda bianca che perde contatto dai primi tre e inizia un bel duello con Alvaro Bautista, come ai tempi della 250. Secondo giro, si arriva alla curva 11, la moto bianca perde aderenza, forse una chiusura di anteriore come tante in quella stagione che gli hanno precluso troppi risultati di rilievo. Non è una scivolata come le altre, si capisce subito. La moto che riprende aderenza perché il suo pilota non ne vuol sapere di mollare, non questa volta. Un lampo: due moto, una rossa, l’altra gialla e nera e quel ragazzone che scivola esanime per qualche metro, il casco che rotola per la pista mentre Edwards viene scalciato via dalla moto e Rossi riesce a domare il suo bolide riprendendo la pista.
A distanza di anni, quel sedicenne, si ricorda con impressionante lucidità quella sensazione di terrore. L’ansia, la scissione tra realismo razionale e la speranza che beh, in qualche modo si sarebbe ripreso, DOVEVA riprendersi. Dai cazzo lui è Super Sic, non può finire così, non è giusto che finisca così. Lui è un, se non IL combattente per eccellenza. Le inquadrature indugiano su un Rossi ai box prossimo alle lacrime. Non solo lui per la verità. Quello che nessuno avrebbe mai voluto sentire viene annunciato alle 16:56 orario di Sepang, in Italia non lo so, avevo totalmente perso la voglia di contare il tempo. Si accavallano tanti pensieri nell’immediato. C’è quel senso di incredulità benchè non fosse, ahimè, il primo incidente con quel triste epilogo che vedessi. C’era quell’amaro, odioso e rabbioso pensiero “adesso quelle bestie che Barcellona gli auguravano la morte avranno di che festeggiare”. Ancora adesso non so perché fosse tra i miei primi pensieri, forse perché augurare una caduta, un infortunio o addirittura la morte di un pilota è tra i gesti più vili e indegni che ci possano essere e perché il rischio che da parole vuote si passi a tristi fatti è molto reale, anche se non si pensa spesso a questa parte. Si tende ad omettere questo aspetto quando c’è da commemorarlo.
Quell’annata è stata veramente strana per il Sic, alternanza tra risultati pessimi dovuti a quella smania di voler vincere, quella fretta e quell’aggressività propria di chi ha fame di vittoria contrapposti a risultati di classe cristallina come il podio di appena sette giorni prima in Australia. La caduta provocata a Dani Pedrosa a Le Mans, gli insulti e le reazioni: “è pericoloso”. La difesa del suo amico Valentino. Quel sorriso sincero mai banale, sempre disponibile, sempre solare. Quella voglia e quella consapevolezza di fare quello che si sogna da bambini e quello per cui si è lottato tanto. Non è stato facile arrivare per lui in MotoGp, la gavetta, le critiche per il fisico troppo grande per le 125. Il salto nella 250, le delusioni, le troppe cadute. La rivincita, quella grande. Far ricredere tutti, Aprilia in primis, i detrattori poi. Sepang 2008, il giro d’onore, iconico che diverrà un inno visivo alla sua memoria. Questo è tutto quello che mi rimbalzava nella mente nel poi, nel metabolizzare la scomparsa di quello che non era solo un pilota di moto.
Forse la sua figura era più simile a quella dell’amico casinista, capace di fare danni ma anche grandi imprese che faranno parlare per molto tempo. L’ amico a cui non puoi non voler bene qualunque cosa egli possa combinare. La verità è che quando si parla di quel ragazzone col numero 58 sulla moto è facile cadere nel banale, nel già detto o scritto. Quel 23 ottobre ha cambiato la MotoGp moderna, come se si fosse spenta una luce dentro al paddock. Come se quell’alone di tristezza non avesse mai lasciato davvero l’ambiente e che nonostante lo show vada avanti da parecchio tempo dopo l’accaduto ci sia qualcosa che stona ancora. Il Sic manca, è un dato di fatto. Non solo ai suoi tifosi ma all’ambiente.
Manca quella freschezza e quella spontaneità che regalava. Il Sic rendeva tutto più umano in un motorsport che sembra più orientato verso la figura del pilota-automa, partendo anche dalla figura di Paolo: padre, amico, consigliere e primo tifoso, mai sopra le righe.
Marco Simoncelli incarnava lo spirito del pilota per eccellenza, amante del suo mestiere e conscio del privilegio-sogno che stava vivendo. Un inno al mai arrendersi anche quando tutto è contro, dalla moto ai risultati, passando per le tifoserie. Era la figura che mi piaceva visceralmente quella del Sic; sorpassi, carenate prese, date ma sempre col sorriso e la volontà di diventare quel qualcuno nell’olimpo delle due ruote. Storie di motori veri e non di strette di mano mancate. L’unico pilota a cui venne dedicato un minuto di casino e non di silenzio per ricordarlo. Questo era, è Marco Simoncelli.
Diobò se ci manchi.